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Legittimare la tortura? Il 14 giugno iniziativa in Senato

 

Il 14 giugno al Senato della Repubblica presso la Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro in piazza Capranica 72 a Roma dalle ore 10:30 i promotori dell’appello “Una vera legge sulla tortura” organizzano due dibattiti all’interno dell’iniziativa “Legittimare la tortura?”

Mercoledì 17 maggio il Senato ha approvato con 195 voti favorevoli, 8 contrari e 34 astenuti un disegno di legge che introduce nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il testo (di iniziativa parlamentare, a prima firma di Luigi Manconi del PD, e risultato dell’unificazione di altri cinque disegni di legge) era arrivato in commissione Giustizia del Senato il 22 luglio del 2013, era stato approvato dal Senato nel 2014, successivamente alla Camera con delle modifiche (aprile del 2015) e a distanza di due anni, tra promesse di approvazione e rinvii, di nuovo al Senato e sempre con delle modifiche. Il ddl passerà ora alla Camera per una quarta lettura. Il testo approvato in questi giorni è diverso da quello iniziale proposto dal senatore del PD Luigi Manconi, che da molti anni si occupa della violenza delle forze di polizia e della tutela dei diritti delle persone detenute. Manconi ha detto che «è un testo stravolto» e lui stesso non ha partecipato al voto. Con il nuovo testo si contestualizza quello che fa scattare la pena: viene introdotto il termine «reiterate violenze», l’agire «con crudeltà» e il «verificabile trauma psichico».

L’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale è un provvedimento atteso da tempo e molto discusso. L’Italia ha ratificato nel 1989 la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma non si è dotata di una legge specifica che riguardi gli agenti di polizia e altri pubblici ufficiali. Il Codice penale prevede, all’articolo 608, limiti per le “misure di rigore” che le forze di polizia possono attuare nei confronti delle persone che si trovano in stato di fermo e arresto, ma non ci sono molti riferimenti a tutele e garanzie. Altri tre articoli (581, 582 e 612) sono invece dedicati ai comuni cittadini che procurano ad altre persone minacce, lesioni, danni fisici o psichici e prevedono pene fino a un massimo di 3 anni, ma non si applicano per i pubblici ufficiali e le forze di polizia. Il codice penale non identifica reati specifici per azioni di questo tipo, compiute da chi è pubblico ufficiale, con abuso di autorità verso i singoli cittadini privati.

Il testo originale
Il disegno di legge presentato nel 2014 era composto da sei articoli, introduceva il reato di tortura e lo rendeva punibile con la reclusione da 3 a 10 anni: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni». Le pene erano diverse se il fatto era commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, con pene aumentate dai 5 ai 12 anni. Se dal fatto derivava una lesione personale, le pene erano aumentate: di un terzo se la «lesione personale è grave», della metà «in caso di lesione personale gravissima». Se dal fatto derivava la morte «quale conseguenza non voluta», la pena era la reclusione per trent’anni. Se la morte era causata da un atto volontario, la pena era l’ergastolo.

Nel ddl c’erano riferimenti anche al reato di istigazione a commettere tortura: un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che istigava un collega rischiava da sei mesi a tre anni, indipendentemente dal fatto se il reato di tortura venisse poi commesso o meno. L’articolo 2 diceva che le dichiarazioni ottenute tramite tortura non potevano essere utilizzate, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Il testo prevedeva infine negli altri articoli delle tutele, e cioè il divieto di estradizione o respingimento, per gli stranieri «verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere» che quella stessa persona rischi di essere sottoposta a tortura.

Il nuovo testo
Luigi Manconi ha spiegato: «Il primo giorno della legislatura, il 15 marzo del 2013, presentai un ddl sulla tortura. Quanto accaduto in questi anni è stato lo stravolgimento di quel testo che ricalcava lo spirito profondo che aveva animato le convenzioni e i trattati internazionali sul tema. E le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima? Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà, o comunque loro affidate». Secondo Manconi, poi, il reato viene considerato come comune e non proprio, slegato quindi nella sua definizione dall’operato dei pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio.

Nei vari passaggi il testo originale è stato via via precisato e il suo scopo ristretto. Si è cioè contestualizzo quello che fa scattare la pena: viene introdotto il termine «reiterate violenze», l’agire «con crudeltà» e il «verificabile trauma psichico». Il nuovo testo approvato dal Senato, all’articolo 1 prevede che «chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minore difesa, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni». I traumi psichici dovranno cioè essere verificati. Inoltre è stato aggiunto che il fatto deve essere «commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona», insistendo dunque nel limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo. Infine, a tutela delle forze di polizia, è stata confermata l’esclusione dalla legge delle sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti da parte dei pubblici ufficiali. Quindi il singolo atto di violenza potrebbe anche non essere punito, così come non viene applicata la pena nel caso che le sofferenze siano indotte da legittime misure preventive o limitative dei diritti. Nelle Convenzioni ONU i trattamenti sono definiti semplicemente come inumani o degradanti, e non occorrono più condotte.

Diverse associazioni che si occupano di tortura, come Amnesty International e Antigone, hanno detto che il testo è «impresentabile». Le due associazioni hanno pubblicato una dichiarazione: «Questa legge, qualora venisse confermata anche dalla Camera, sarebbe difficilmente applicabile. Il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura. Con rammarico prendiamo atto del fatto che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti 28 anni fa con la ratifica della Convenzione».

La condanna di Strasburgo
Nell’aprile del 2015, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001, dove secondo i giudici le azioni della polizia ebbero «finalità punitive» con una vera e propria «rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime». La Corte aveva quindi parlato di «tortura» e aveva invitato l’Italia a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte». La sentenza aveva riaperto il dibattito sul reato di tortura e aveva portato a un’accelerazione, seppure temporanea, della discussione di un nuovo disegno di legge in Parlamento. Associazioni e osservatori chiedono da tempo leggi più chiare su questo tema, anche alla luce di quanto avvenuto con i casi Cucchi, Aldrovandi e Uva.

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