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Stefano Cucchi, per il pm fu omicidio preterintenzionale

 

A otto anni dalla morte, finisce inchiesta bis aperta nel 2014. Accusati i carabinieri Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco, che lo arrestarono a Roma. Reato di calunnia e falso verbale di arresto per il maresciallo Mandolini, allora comandante, e Tedesco. Solo calunnia per Nicolardi

di CARLO BONINI e GIUSEPPE SCARPA

110818854-b50438de-fcb2-47d2-90a0-a27dad444faeROMA – Stefano Cucchi è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto. Non è morto “di fame e sete”, non è morto  “per cause ignote alla scienza medica”, né di epilessia. E’ stato un omicidio. Preterintenzionale. In cui decisiva è stata la mano e la responsabilità di chi lo aveva in custodia, i carabinieri allora in servizio nella stazione Appia. Gli stessi che per coprire la verità avrebbero accusato di quella morte degli innocenti che sapevano tali.

Otto anni dopo la sua morte in un letto del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini di Roma (22 ottobre 2009), il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò chiudono la cosiddetta inchiesta bis (aperta nel novembre del 2014) sui responsabili del suo pestaggio e con l’atto di conclusione indagini contesta a tre dei carabinieri che lo arrestarono nel parco degli acquedotti di Roma – Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – il reato di omicidio preterintenzionale.

Con loro, accusati di calunnia, il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione dei carabinieri Appia (quella che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 aveva proceduto all’arresto) e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco. Per Mandolini e Tedesco, infine, anche il reato di falso verbale di arresto.

Con un cambio di imputazione (i carabinieri cui viene ora contestato l’omicidio erano stati a lungo indagati per lesioni personali aggravate, così come Mandolini e Nicolardi di una falsa testimonianza che ora diventa, appunto, calunnia) che aggrava la posizione degli indagati e soprattutto fuga il rischio incombente della prescrizione, comincia dunque una nuova storia.

Una morte sino ad oggi senza responsabili – tre giudizi di merito, uno di primo grado e due di appello, oltre ad una pronuncia della Cassazione, hanno portato solo ad assoluzioni (definitive quelle degli agenti penitenziari in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, confermate nei due giudizi di appello quelle dei sanitari del Pertini) – trova nelle solide acquisizioni di questa seconda inchiesta della Procura di Roma i presupposti per la celebrazione di un nuovo processo e per riscrivere da capo la storia del pestaggio e della morte di Stefano.

A partire da quanto accadde quella notte del 15 ottobre del 2009 – Stefano fu pestato nei locali della caserma Casilina, dove era stato portato per essere fotosegnalato – per proseguire con lo snodo chiave della vicenda sotto il profilo giuridico. L’esistenza cioè di un nesso di causa ed effetto tra le violenze subite dopo l’arresto (la lesione di due vertebre) e la morte, sei giorni dopo, nell’Ospedale Pertini

Decisiva, in questo senso, la confusa e contraddittoria ultima perizia di ufficio (quella condotta dal direttore dell’Istituto di Medicina legale di Bari, Francesco Introna), depositata a inizio di ottobre dello scorso anno, che aveva infatti dovuto riconoscere per la prima volta in otto anni, pure in una contorsione logica e argomentativa, che “le fratture traumatiche delle vertebre” di Stefano “ben possono aver determinato una condizione di vescica neurologica” al punto tale che “la stimolazione del nervo vagale ad esso connessa può aver accentuato la bradicardia di Cucchi fino all’esito finale”

 

fonte: repubblica.it

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