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Elezioni politiche 2018, il manifesto dell’associazione Stefano Cucchi Onlus

Onlus
 

A un mese dall’appuntamento elettorale del 4 marzo, l’associazione Stefano Cucchi Onlus lancia la sfida a candidati e futuri eletti: una serie di proposte e impegni “prioritari dal punto di vista dei diritti civili e umani nel nostro paese”, spiega la presidente Ilaria Cucchi. Un manifesto “su cui chiediamo che i candidati si impegnino pubblicamente avviandoli, se eletti, nei primi 100 giorni del Parlamento che verrà”.

I 6 punti:

  • un’authority indipendente sui diritti umani,
  • la modifica della legge sulla tortura,
  • lo stralcio della nuova disciplina sulle intercettazioni,
  • la revisione dei decreti-sicurezza e in generale di una politica preferisce escludere invece che includere,
  • l’attuazione della riforma dell’ordinamento carcerario,i codici identificativi per le forze dell’ordine.

Ecco i temi su cui la nostra associazione chiede un impegno concreto nella prossima legislatura.

Giustizia

L’amministrazione della giustizia diventa sempre meno democratica poiché la difesa nel processo penale è ormai appannaggio soltanto dei più forti, di coloro che hanno notevoli potenzialità economiche. Anche la nuova disciplina sulla intercettazioni, oltre a costituire un inaccettabile bavaglio al diritto di cronaca e al diritto alla libertà di stampa, conferisce il potere esclusivo alla polizia giudiziaria di ascoltare tutte le intercettazioni fatte durante le indagini attribuendo al suo esclusivo sindacato il giudizio di rilevanza o meno delle stesse anche per la difesa degli imputati oltre che delle persone offese.

Ciò comporta che tutte le intercettazioni ritenute dalla polizia non rilevanti non verranno più trascritte e soprattutto di fatto non verrano più sottoposte al vaglio del magistrato. Le parti private che sono coinvolte nei procedimenti hanno la sola facoltà di ascoltare negli uffici della procura e con la vigilanza stretta della stessa PG. Tale facoltà è di fatto resa impossibile da esercitare quando non vengono trascritte ore e ore di conversazioni in quanto questo comporta un impegno gravosissimo e pressoché impossibile da sostenere per avvocati e ausiliari delle difese e un aspetto economico molto significativo e per i più impossibile da sostenere, costringendo quindi i cittadini normali a fidarsi al giudizio esclusivo della polizia senza poter effettuare alcun controllo e di fatto pregiudicando il diritto di difesa per i cittadini normali.

Chiediamo quindi l’abrogazione della legge sulle intercettazioni, che entrerà in vigore tra pochi mesi.

Carceri e condizioni di detenzione e attuazione riforma ordinamento penitenziario

Chiediamo che lo studio e gli interventi sul sistema carcerario possano diventare parte integrante dell’attività dei prossimi parlamentari. Nonostante il buon lavoro portato avanti dal Ministro Orlando in questo senso, molto ancora c’è da fare in particolar modo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Da essa infatti rimangono esclusi i capitoli più importanti, quelli relativi al lavoro e all’affettività, due aspetti indispensabili per la piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione.

Chiediamo che le carceri siano monitorate costantemente in riferimento a questi e agli altri aspetti, e invitiamo i prossimi parlamentari ad esercitare il potere di sindacato ispettivo, che consente loro di studiare, riportare al pubblico ed escogitare ipotesi di soluzione avverso i numerosi suicidi, tentativi di suicidio, episodi di autolesionismo, e le morti sospette in carcere. Chiediamo infine che si trovino delle soluzioni alternative alla detenzione per le persone malate e con disturbi psichiatrici, che oggi rappresentano la popolazione più numerosa di chi sconta una pena in regime carcerario.

Modifica della legge sul reato di tortura

Il Parlamento ha approvato una legge inservibile sulla tortura, scritta in modo da renderla inapplicabile e in totale contraddizione con la convenzione Onu sulla tortura e con le indicazioni contenute nella sentenza di condanna contro l’Italia della Corte europea per i diritti umani del 7 aprile 2015 (Cestaro vs Italia per il caso Diaz). È un testo inaccettabile per un paese che intende rimanere nel perimetro delle nazioni democratiche e all’interno della Convenzione europea sui diritti umani e le libertà fondamentali, firmata nel 1950.

Il crimine di tortura è configurato come reato comune e non proprio del pubblico ufficiale, arrivando alla scrittura di una norma volutamente ingannevole e quindi pressoché inapplicabile; la tortura è tale solo se “violenze”, “minacce” e “condotte” sono plurime (in tutto il mondo si usa giustamente il singolare); la tortura mentale – la più diffusa – è tale solo se “il trauma psichico è verificabile” (quindi sottoposto a incerte valutazioni, con inevitabili disparità di trattamento e lasciando la porta aperta a tecniche, come la deprivazione sensoriale, oggi praticate in tutto il mondo); la possibilità di prescrizione permane (il Senato ha addirittura eliminato il raddoppio dei termini previsto dal testo della Camera, mentre le convenzioni internazionali e la Corte di Strasburgo richiedono la imprescrittibilità del reato); non è previsto alcun fondo per il recupero delle vittime (altro obbligo disatteso, mentre in altre leggi si prevede il rimborso delle spese legali per certe categorie di imputati); nulla si dice – ulteriore mancanza rispetto agli obblighi internazionali – sulla sospensione e la rimozione di pubblici ufficiali giudicati colpevoli di tortura e trattamenti inumani e degradanti.

Chiediamo che venga modificata subito: è una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti. Abbiamo denunciato già, in fase di approvazione del testo, il fatto che alla fine avremmo avuto una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi.

Chiediamo una legge contro la tortura che ritorni al testo concordato in sede di Nazioni Unite. Quel testo garantisce un equilibrato aggiornamento del codice penale e può essere approvato dal parlamento nell’arco di poco tempo.

Criminalizzazione della società civile

L’Italia vede, negli ultimi anni, un trend crescente di accanimento nei confronti degli ultimi: i poveri, chi si prostituisce, gli accattoni, i senza casa, quelle che vengono definite, con novella definizione giuridica, le “fragilità”, vengono gradualmente ma costantemente allontanati dal centro delle città e dalla vista della cittadinanza. Il tempo delle ordinanze è cominciato già da un po’, ma ora l’ultimo decreto sulla sicurezza ha sistematizzato a livello nazionale un’impostazione ormai consolidata: quella di allontanare il problema invece di prendere in carico le situazioni a livello istituzionale. La “pubblica sicurezza” ha inaugurato una nuova stagione in cui, in nome del decoro, si criminalizza chi vive in condizioni di povertà e si reprime con forza ogni dissenso. Le ordinanze anti-barboni, l’“architettura ostile”, la creazione di comitati di cittadini per il “decoro”, i daspo contro senzatetto e attivisti, il potenziamento degli sgomberi di occupazioni abitative senza soluzioni alternative raccontano di città che escludono sempre più.

L’associazione Stefano Cucchi Onlus chiede alla nuova legislatura e al nuovo governo un deciso cambio di passo contro quella che, alla fine, si rivela essere un’ingiustizia. Chiediamo che le problematiche sociali vengano trattate in quanto tali e non più come problemi di ordine pubblico. Senzatetto, mendicanti, prostitute, venditori ambulanti e occupanti di case non sono il nostro nemico. Nella maggior parte dei casi, c’è una ragione sociale ed economica che spiega lo stato di queste persone e la loro marginalità. Situazioni le cui ragioni vanno ricercate spesso nella struttura della società e nelle carenze del welfare, insieme all’impossibilità tutta italiana a mettere in atto provvedimenti di empowerment per le persone delle classi sociali più disagiate.

La legge sulla “sicurezza urbana”, che porta la firma dei ministri Marco Minniti e Andrea Orlando, mira a rafforzare la “sicurezza urbana” definita come “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città” e individua nella “eliminazione dei fattori di marginalità sociale, nella tutela del decoro e nel raggiungimento di più elevati livelli di coesione sociale” i tre strumenti attraverso cui garantire la promozione e la tutela della sicurezza urbana. Solo che il decreto – insieme, ad oggi, alle politiche – non prevede misure di welfare: investimenti in istruzione, assistenza, politiche attive del lavoro, misure di sostegno al reddito. Mancano, in Italia, azioni concrete volte a “eliminare i fattori di marginalità sociale”. È quello che chiediamo a candidati e futuri eletti, e su questo vogliamo impegnarli: ad intervenire sulle leggi di pubblica sicurezza con provvedimenti reali che siano volti a “eliminare i fattori di marginalità sociale”.

I soggetti che si trovano a vivere condizioni di marginalità sono ben individuati, ma ad oggi, invece di essere destinatari di azioni di supporto per fuoriuscire dalla loro condizione, sono piuttosto destinatari di sanzioni amministrative e DASPO, in nome del “decoro” elevato a norma e della “sicurezza urbana”. Gli ultimi, di fatto, vengono puniti per la loro condizione come se questa fosse il frutto di una libera scelta.

Istituzione nazionale indipendente sui diritti umani

L’Italia non si è ancora dotata di una Istituzione nazionale indipendente per i diritti umani e risulta, ad oggi, inadempiente rispetto ai Principi di Parigi e alla Risoluzione 48/134, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993, oltre che alla risoluzione del Consiglio d’Europa (97)11 del 30 settembre 1997. L’Italia si era impegnata ad attuare la Risoluzione con il “pledge” formulato in occasione della candidatura al Consiglio dei diritti umani (2007-2010), ma l’impegno non è stato ancora concretizzato.
L’Istituzione nazionale indipendente sui diritti umani è un organismo incaricato di monitorare, proteggere e promuovere i diritti umani a livello nazionale ed è attualmente presente in oltre 120 paesi nel mondo. In Europa sono oltre 41.

Nel 2013 sono stati presentati diversi disegni di legge finalizzati alla creazione di questo organismo. Nell’aprile 2015 è iniziato l’esame congiunto nella Commissione Affari costituzionali del Senato. L’ultimo esame si è svolto a luglio 2017.

Tale Istituzione si fa quindi attendere ormai da oltre 20 anni, tempo durante il quale è stata più volte sollecitata con numerose azioni da parte della società civile, nonché attraverso l’Esame periodica universale delle Nazioni Unite (Upr). Le raccomandazioni sulla creazione di una Istituzione nazio­nale indipendente sui diritti umani indirizzate al nostro governo nel 2010, in occasione del primo ciclo dell’Upr, sono state considerate non attuate dal Consiglio dei diritti umani in occasione del secondo ciclo dell’Upr, il 27 ottobre 2014. In quest’ultima occasione ben 25 stati membri del Consiglio hanno rivolto all’Italia raccomandazioni a creare tale organismo.

Le competenze dell’Istituzione riguardano: la promozione dei diritti umani; il monitoraggio del rispetto dei diritti umani nonché l’attuazione delle convenzioni e degli accordi internazionali ratificati dall’Italia in materia; la formulazione di raccomandazioni e proposte al Governo su tutte le questioni concernenti i diritti umani; la collaborazione per lo scambio di esperienze e la migliore diffusione di buone prassi con gli organismi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani; l’analisi delle segnalazioni in materia di violazioni di diritti umani; la promozione degli opportuni contatti con le autorità, le istituzioni e gli organismi pubblici cui la legge attribuisce, a livello centrale o locale; la promozione presso le singole amministrazioni pubbliche, presso le istituzioni scolastiche e le università di programmi di formazione, didattici e di ricerca in materia di tutela dei diritti umani.

Chiediamo quindi un impegno a costituire quanto prima e non oltre la 18a legislatura un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani, obbligo divenuto ormai improcrastinabile per il nostro paese.

Normativa sui codici alfanumerici identificativi sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico

Da circa diciassette anni, in Italia, si discute dell’ipotesi di dotare le forze dell’ordine di un codice identificativo personale. È del 2001 la raccomandazione del Consiglio d’Europa che prevede l’obbligatorietà di un numero identificativo sulle divise degli agenti impegnati in operazioni. Anche il Parlamento europeo ha espresso con chiarezza, mediante l’approvazione della risoluzione del 12 dicembre 2012, sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea (2010-2011), la necessità di un codice identificativo per le forze impegnate nella tutela dell’ordine pubblico, a tutela degli operatori e della cittadinanza. In particolare, la raccomandazione n.192, inequivocabilmente esorta gli Stati membri a fare in modo che il controllo democratico e giudiziario dei servizi incaricati di far applicare la legge e del loro personale sia rinforzato, che l’obbligo di rendere conto sia assicurato e che l’impunità non abbia alcuno spazio in Europa, particolarmente in caso di uso sproporzionato della forza o di atti di tortura o di trattamenti inumani o degradanti e infine esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo .

Diversi sono stati i disegni di legge presentati in questi anni che perseguono la medesima finalità normativa, ovvero dotare gli agenti delle forze dell’ordine di un codice identificativo, ai fini di una loro riconoscibilità e identificazione. Un passo avanti importante sembrava essere stato fatto a febbraio 2017 quando il tema è stato rimesso nell’agenda delle istituzioni: nella versione originaria del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” – pacchetto di misure, il cui obiettivo è potenziare l’intervento degli enti territoriali e delle forze di polizie nella lotta al degrado delle aree urbane, con un approccio che privilegia il coordinamento delle forze e la programmazione di interventi integrati – era stato inserito un emendamento ad hoc sui codici identificativi di reparto, ma poi è stato tolto all’ultimo momento.
La richiesta che viene quindi da più parti non è esporre un nome e un cognome, ma un identificativo alfanumerico che avrebbe un duplice effetto di trasparenza: verso i cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti delle forze dell’ordine che svolgono correttamente il loro servizio.

In diversi Paesi europei, e persino in Turchia, esistono già provvedimenti per l’identificazione individuale degli agenti di polizia in servizio (Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Grecia, Belgio, Olanda). Per l’Italia si tratterebbe di una battaglia di civiltà e un’azione che ci uniformerebbe al resto d’Europa.

Chiediamo l’introduzione di una norma che assicuri l’esposizione sulle divise o sui caschi di numero identificativo, ben visibile, strumento necessario per isolare gli abusi e difendere chi svolge il proprio lavoro al servizio del cittadino.

L’associazione Stefano Cucchi Onlus

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